Approda al tavolo delle Regioni il testo per la definizione dell’ospedale di comunità (qui il testo).
Ma a cosa serve questo ospedale di comunità, o in burocratese “presidio sanitario di assistenza primaria a degenza breve”?
È davvero necessario complicare ulteriormente la struttura del sistema sanitario nazionale?
Insomma…
Che cos’è l’ospedale di comunità?

Sulle testate dei giornali troverete questa frase: “ponte tra ricovero ed assistenza al domicilio”.
E quello sarebbe l’obiettivo, in quanto effettivamente dal punto di vista logistico esiste un buco, che va a gravare sugli ospedali.
Il sistema sanitario italiano più o meno è strutturato così:
- per le condizioni acute e con richieste assistenziali importanti ci sono gli ospedali. In pratica le emergenze, ad esempio una appendicite, una frattura, ecc…
- per le condizioni non acute ma con richieste assistenziali importanti ci sono i ricoveri, o come spesso sono chiamati le “lungo degenze”. Si parla cioè di pazienti stabili dal punto di vista clinico, ma le cui condizioni richiedono comunque l’assistenza pressoché costante di personale sanitario. Immaginiamo un ictus, dove passato il momento acuto inizia un percorso di riabilitazione lungo, dove medici, infermieri, fisioterapisti, logopedisti, ecc… devono coordinarsi giornalmente.
- per le condizioni non acute e con richieste assistenziali non importanti c’è la assistenza domiciliare.
L’ospedale di comunità si posizionerebbe tra il secondo ed il terzo punto. Perché si parla di condizioni non acute, di richieste assistenziali non importanti che potrebbero essere gestite al domicilio.
E la parola chiave è appunto questa: potrebbero.
A chi è rivolto l’ospedale di comunità?
Il documento cita:
L’ospedale di comunità è una struttura territoriale di ricovero breve rivolta a pazienti che, a seguito di un episodio acuto o per la riacutizzazione di patologie croniche, necessitano di interventi sanitari a bassa intensità clinica parzialmente erogabili al domicilio, ma che vengono ricoverati in queste struttura in mancanza di idoneità del domicilio stesso (strutturale e/o familiare) e necessitano di assistenza/sorveglianza sanitaria infermieristica continuativa, anche notturna, non erogabile ad domicilio
Ora, personalmente fino a qui è poco chiaro, prima si parla prima di pazienti che possono essere gestiti al domicilio, e poi di “assistenza/sorveglianza sanitaria infermieristica continuativa“.
I chiarimenti vengono dopo, quando viene definito il target di utenza (al punto D del documento).
Si parla quindi di:
- pazienti che necessitano di completare il processo di stabilizzazione clinica
- con una valutazione prognostica di risoluzione a breve termine (15-20 giorni)
- che necessitano di assistenza infermieristica continuativa e assistenza medica programmata o su specifica necessità
Ecco che la situazione si definisce meglio. Si parla di quelle persone che in pratica sono già state curate, ma delle quali si vuole avere la certezza della stabilità dei risultati prima delle dimissioni.
In realtà la domanda che traspare dal documento, alla quale è difficile dare una risposta in burocratese, è questa:
“Ma questo paziente, come faccio a mandarlo a casa?”
Si parla dell’anziano che sì, clinicamente è a posto, ma a casa da solo non ce la fa.
Si parla di chi per un periodo è costretto sulla sedia a rotelle, ma non ha l’ascensore.
Si parla insomma di chi con un poco di aiuto ce la può fare, ma senza è abbandonato. Ma che non posso tenere in ospedale, dove il posto serve a chi di aiuto ne ha bisogno parecchio, o forse di più.
I pro ed i contro
Per i pro:
- si andrebbero a scaricare gli ospedali
- si andrebbero a suddividere meglio i pazienti. Avere tutti quelli che hanno grosse necessità da una parte e tutti quelli che ne hanno poche da un’altra permette di organizzare meglio il lavoro e dividere meglio le risorse, il che vuol dire risparmiare.
- Si parla di strutture piccole, sparse sul territorio. In pratica, vicino a casa. E la distanza è spesso l’ostacolo più grande. A tutti è capitato di avere un proprio caro in ospedale, e tutti sanno le difficoltà pratiche di andare a fargli visita. Sopratutto in una città grossa, come Milano. Difficoltà che poi si traducono in un supporto famigliare ridotto, e quindi in un impegno da parte dei professionisti maggiore.
I contro? Ad occhio principalmente due:
- Di anno in anno sulla sanità si taglia, qui si parla di investimenti importanti. Che è vero, nel tempo si andranno a ripagare, ma nell’immediato i soldi dove li si prende? Tagliando su altri servizi?
- Il personale dove lo troviamo? Voglio dire, basta aprire un qualsiasi giornale per vedere che già oggi mancano infermieri e medici. E mica pochi, si parla di 50.000 infermieri ed almeno altrettanti medici nei prossimi anni.
Senza considerare che in alcune regioni è ancora vigente il blocco totale o parziale del turn-over: in pratica non ci sono i soldi, e se uno va in pensione, non si assume nessuno a coprire il posto.
Insomma l’idea è buona, e sopratutto tenta di rispondere ad un problema reale.
Ma si rivelerà una soluzione o una emorragia per i conti pubblici?